Recensione di: Ingrid B. Coman, Tè al samovar, Milano, Rediviva Edizioni, 2015

Sulla tela grezza color nocciola, all’interno di uno scatolone sistemato nel ripostiglio, Vera scopre «sei caratteri tracciati con un pennarello blu [che] sembravano fremere sotto le sue dita, come creature che vedono la luce dopo un lungo letargo: kolyma». Questa breve citazione è tratta  dal capitolo iniziale di Tè al samovar, il romanzo che Ingrid Beatrice Coman ripropone in una nuova versione per Rediviva Edizioni. La Kolyma, viene spiegato in una nota, è una regione della Siberia nord-orientale, dal nome dell’omonimo fiume, tristemente famosa come sede di uno dei campi di lavoro forzato (gulag) allestiti dal regime comunista sovietico all’indomani della Rivoluzione. Le domande di Vera Nureev al compagno Alëša (Aleksej Alekseevič Leonov) sul significato misterioso della parola Kolyma riaprono in lui lo squarcio lasciato dall’esperienza nel gulag e diventano lo stimolo per tessere, sul filo della memoria, un racconto in cui la finzione si intreccia con uno dei capitoli più drammatici della storia europea del XX secolo, perché, come viene detto chiaramente nel romanzo: il passato non è mai passato.

Dallo scatolone escono una serie di oggetti che spingono Alëša a ricostruire la sua vita nel gulag sovietico, a stretto contatto con le persone che hanno condiviso la sua sorte: una ciocca di capelli e un pigiama di seta, legati al giornalista italiano Guglielmo Contini (ribattezzato Gulja), un braccialetto di cuoio con la scritta “nemico del popolo”, la verga del “gioco dell’ultimo”, la pagina sessantacinque di Guerra e pace trasformata in un asso di cuori, le calze grigio scuro di Kolja, una pipa che assomiglia a un pugno chiuso, un disegno scarabocchiato con la scritta “Il cavaliere e la sua signora”, la lettera accorata di Sergej e il rosario di Pëtr. Ognuno di questi oggetti diventa una tappa quasi obbligata nel racconto di Alëša che rievoca l’incubo del gulag facendo rivivere i compagni della baracca numero 37: Gulja, Dmitrij, Kolja, il professor Sergej, lo scultore Volodja, il pianista Stepan, Ivan il lentigginoso, il vecchio Oleg Semënov, il giovane prete Pëtr. Fra questi si distingue in particolare l’italiano Gulja, per il rapporto speciale che riesce a instaurare con Alëša, per la naturalezza e l’ingenuità con cui affronta inizialmente l’esperienza del gulag e per il fascino, quasi misterioso, che esercita sugli altri, come nell’episodio della seduta spiritica. Gulja, poi, sembra essere dotato di un sesto senso, di un’insolita capacità di intuire il carattere di ogni individuo che incontra e lo sviluppo oscuro di avvenimenti passati o futuri, materializzati in suoni o profumi (cannella e mughetto per esempio) che solo lui riesce a percepire. La magia del personaggio di Gulja si riversa anche sull’ambiente circostante tanto che a volte il lettore ha l’impressione di addentrarsi in una sorta di fiaba, dove i cattivi (come il caposquadra Karpov) vengono alla fine puniti dall’intervento tempestivo dei buoni, imprigionati nel campo di lavoro.

In realtà, l’atmosfera fiabesca è soltanto un alone che avvolge una parte della vicenda; la scrittrice, infatti, sulla base di un’attenta documentazione citata nella bibliografia alla fine del libro, mantiene il lettore ancorato alla concretezza e alla brutalità di un sistema costruito dal regime sovietico nel tentativo di annientare l’individuo e sfruttarne, contemporaneamente, tutte le energie. Non per nulla, in controluce nel testo, appare il modello di Una giornata di Ivan Denisovič, il romanzo di Aleksandr Solženicyn che Ingrid Beatrice Coman ha letto, insieme ad altre opere di questo fondamentale scrittore, per poter descrivere con maggiore precisione la realtà del gulag sovietico, oggetto anche di una breve scheda storica (“Nemici del popolo”) inserita alla fine di Tè al samovar.

L’indagine storica, in ogni caso, non soffoca la  creatività della scrittrice che mantiene tutta la sua libertà nell’elaborazione della trama, nella costruzione della vicenda e nello stile evocativo calibrato sulla personalità dei due principali narratori. Gli avvenimenti, infatti, scorrono davanti agli occhi del lettore non solo attraverso la narrazione di Alëša e la registrazione dei suoi pensieri e delle sue reazioni, ma anche attraverso lo scambio epistolare di Vera con un’amica, un dialogo scritto che permette a Vera di scoprire gradualmente la crudeltà del mondo che la circonda e il vuoto che si nasconde dietro un’apparente tranquillità e dietro l’attività frenetica del marito Serëža. Le vite di Alëša e di Vera si intrecciano di continuo, si sovrappongono e si allontanano per poi riavvicinarsi definitivamente, così come accade alle loro voci che prima disegnano una sorta di monologo e poi si incontrano in un dialogo che suggella l’incrocio delle loro esistenze.

La trama si sviluppa così in un incessante riverbero di voci, dove trovano spazio avvenimenti,  a volte cupi e misteriosi, come l’assassinio di Karpov o il destino tragico di alcuni deportati (Sergej, Oleg Semënov e Stepan), a volte inquietanti, come il progressivo risveglio di Vera alla realtà, altre volte gioiosi, come la liberazione di alcuni prigionieri, il progressivo ritorno alla vita dei due protagonisti e l’incontro casuale che ridisegna il loro futuro. Tutti questi eventi vengono catturati da Ingrid Beatrice Coman con uno stile incisivo che registra gli aspetti più tormentati delle situazioni descritte e, contemporaneamente, ricorre a un’ampia gamma di toni per aderire alla personalità dei due protagonisti narratori e restituire così la vitalità di tutti i personaggi, a partire dall’indimenticabile Gulja. Ed è proprio questa simpatica figura che sprona i suoi interlocutori (compreso il lettore) a non scivolare nello sconforto e a riconquistare lentamente la libertà e la dignità riannodando il filo della memoria che per Alëša, in particolare, si dipana intorno all’Africa e a un ricordo ancora vivo del passato, di cui il “tè al samovar”, assaggiato in una caffetteria di Mosca, rappresenta il simbolo e la sintesi.

© 2015 Rediviva Edizioni, Milano

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